Pier Enrico Angelini Larghetti, detto Gambèla (1926-1998) era alto e ben piazzato, di caviglie sottili e collo taurino, per noi ragazzi era un mito. Quando incontravi qualche amico, prima o poi il discorso cadeva su Gambèla, sulle sue ultime avventure. Tutti sostenevano d’essere suoi amici e molti vantavano fantomatiche parentele. Si diceva che fosse stato nella Legione Straniera, che fosse laureato in Scienze Coloniali e che in ragioneria avesse messo sul banco una pistola come fermacarte. Se ne raccontavano più di mille, ma nessuna era vera. Piero era anche soprannominato “Piero bugia”. Voleva dar di sé un’immagine di uomo duro ma nei fatti era un bonaccione. Millantava pure d’essere stato Ufficiale della R.S.I. ed esser stato condannato a morte dal tribunale di guerra britannico, poi graziato dal C.N.L., dato che gl’inglesi stavano sui coglioni anche ai partigiani. Il reato ascrittogli sarebbe stato di aver impartito l’ordine al Sergente Duilio Bianchini, che gli teneva corda nelle bugie, di comandare il plotone d’esecuzione per una ventina di Gurkha. Ad ogni racconto aumentavano di numero per arrivare fino a duecento. I Gurkha erano per l’esattezza soldati nepalesi, arruolati nell’esercito britannico e noti per le loro doti di valorosi combattenti; giovani fucilieri (rifleman, si legge sulle loro lapidi) di età compresa per lo più tra i 18 e i 26 anni, i cui resti sono sepolti nel Cimitero di Guerra di Coriano.
Piero le sparava sempre grosse ma aveva il merito di documentarsi. Un’altra storia che venni a sapere, anche per via indiretta, fu quella d’esser stato nella Legione Straniera con Cesare (Cici) Amati a Sidi Bel-Abbès in Algeria, ma risulterebbe che entrambi non si mossero mai da Marsiglia dove furono fermati dalla polizia per accertamenti e rimpatriati.(1) Tuttavia, dato che l’intenzione d’arruolarsi c’era, la trama di tutta la storia fu ben architettata e gestita. Infatti, la signora Maria (madre di Cici e amica di famiglia) venne un giorno a casa e, in presenza mia e di mia madre, lesse l’accorata lettera del figlio esule. Cici scriveva del divario climatico fra giorno e notte e che doveva bere molto alcool per ammazzare le malattie che falcidiavano le truppe.
La lettera al suo interno era intestata come proveniente da Sidi Bel Abbès e la busta aveva il timbro di Marsiglia, apparendo conforme, poiché, in effetti, tutta la posta in uscita dalla Legione veniva inviata a Marsiglia e poi smistata per le varie località di destinazione. Ricordo, poi, che un giorno lo si vide giungere a casa proveniente dal fondo di via Nazario Sauro, coi pantaloni stracciati e le scarpe impolverate che sembrava uscito fresco, fresco dal deserto. Tutto il rione gli andò incontro festante ed i genitori lo accolsero come il figliol prodigo. Più tardi negli anni, quando divenni amico di Piero, gli chiesi come avevano fatto a scappare da quell’inferno. Mi disse che mentre stavano scavando delle buche all’aeroporto videro che sull’aereo della Croce Rossa stavano caricando le barelle con le salme dei morti da rimpatriare; corruppero i portantini e presero il posto dei cadaveri gettandoli nelle fosse.
Ma chi andò veramente nella “Legione Straniera” fu Marcello Ceschi del Garden di Viserba e Ulderico Marangoni. Uomo affascinante e d’elegante portamento, passava le sue giornate a discutere di calcio dirimpetto al Caffè Giovannini (ora Bottega del caffè), circondato sempre da un capannello di numerosi tifosi del Rimini. Quando alla soglia dei cinquant’anni sposò una finlandese, fece un matrimonio pubblico con cerimonia in Comune e il giro del centro storico in carrozza con tanto di servizio giornalistico e fotografico a cura della stampa locale. Ricordo entrambi in abito bianco. Lei sfoggiava un cappellino a larghe tese che era una meraviglia, nell’insieme, una bellissima coppia!
Ai tempi della mia amicizia con Piero mi alzavo dal letto verso sera, cenavo con lui ed altri occasionali perdigiorno, sempre in un posto diverso. Poi andavamo al cinema, quindi facevamo una capatina da “Lino” alla stazione per uno spuntino, più tardi giocavamo a carte dove capitava e facevamo sempre l’alba. A Piero non mancavano mai i soldi (si diceva che le sue vecchie zie gli volessero molto bene) era molto generoso e pagava spesso anche per me. Una sera eravamo al cinema Fulgor, guardavamo un film di guerra e gli chiesi come mai l’avevano condannato a morte. Lui con aria complice e parlandomi come si recita in teatro mi disse: “A séra in te port ad Genova se mi “maiale” spes una neva inglisa e a t’hò cazè una bomba. I-iera set nevi tachedi; tôti preria!” (2) e mimando i fuochi d’artificio con le mani, dalla sua bocca uscivano i botti: “Boom, boom, boomboom!”. Evidentemente si era dimenticato che m’aveva raccontato anche quella dei Gurkha. Glielo ricordai e lui subito pronto mi rispose che aveva due mandati internazionali di cattura.
Il giorno del suo 40° compleanno lo incontrai in piazza Tre Martiri, era in bicicletta e mi fece un discorso veramente serio sull’esistenza umana e sulla solitudine che cominciava ad attanagliarlo. Mi stava dicendo che avrebbe voluto sposarsi desiderando dare una svolta a quella vita peregrina, ma poi arrivarono altri amici in crocchio e divenne subito lazzo. Prese la carta d’identità e la mostrò a tutti. Poi proseguì: “Ieri sera ci ha fermato la polizia per un controllo e hanno chiesto i documenti, quando hanno visto Duilio con quella brutta faccia, volevano arrestarci tutti, ma io gli ho mostrato la mia carta d’identità e ho detto, vedete? C’è scritto libero professionista; al che mi hanno chiesto di specificare quale professione esercitassi. Ho risposto libero di non fare un cazzo!” e giù risate dal piccolo capannello che in fretta si era creato intorno a lui; era tornato ad essere il Gambèla di sempre, non riusciva a star fuori più di dieci minuti dal personaggio che si era creato. Ormai Piero viveva racchiuso nella sua mitica torre d’avorio e ci stava bene lassù in cima. Come Alighiero Noschese fu il primo e più grande imitatore, Gambèla fu il primo e il più grande bugiardo del secolo, magistralmente emulato da Gianni Mandolesi (detto Vinù o Vinolesi) che se non lo superò gli fu certamente alla pari.
Note
c.f.